IL PAESAGGIO NON RESUSCITA

«Un fastidio che non sapeva bene neanche lui. Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su […] facevano a chi monta sulle spalle dell’altro». Da anni, quando vado in Liguria, sul treno e in acqua mi chiedo quale beatitudine agli occhi fosse un tempo la costa, e mi addoloro, stupido, per il paesaggio perduto; mi appare Capo di Noli di Signac, e immagino il viaggio in barca del pittore dalla Costa azzurra, i suoi sguardi che non possono più essere i nostri. E poi ho letto per caso: il sanremese Calvino, in treno per il ponente ligure, non riconosceva più la sua terra. Così all’apparizione del pittore in mare mi s’è aggiunto lo scrittore sul vagone, e mi sento meno stupido, e comparo la mia malinconia al dolore di chi, in quella riviera, vi crebbe. Calvino lo affrontò – insieme al «fastidio» – con La speculazione edilizia; l’ho scoperto solo in una recente, inquieta visita a Sanremo.

Lo scempio ligure, nelle fondamenta della febbrona edilizia che coinvolse l’intero Paese, è il medesimo del nostro attuale e ubiquo stile di vita.

La velocità del cambiamento consumista, con la produzione smisurata di merci e infrastrutture – sospinta dal sistema mediatico e tecnologico – ha ucciso nel secondo Novecento un paesaggio naturale e culturale. E il paesaggio non resuscita: stop, finito. In un lampo di Storia.
Su tale aspetto mi sento molto meno ricco di chi ha vissuto infanzie bucoliche prima e dopo la seconda guerra mondiale.
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Sperare l’unione autentica fra Terra e umanità

«La speranza è una trappola, è una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni, […] è una cosa infame».
Queste parole di Mario Monicelli, pronunciate 12 anni fa alla Rai, mi sovvengono ogni volta che penso nel profondo alla speranza. Ogni volta che con essa sogno, o mi addoloro, sussurrandomi talvolta che sì, Monicelli aveva ragione.

Poi rinsavisco. Perché la speranza non è una e sola, uguale per tutti: dipende da chi la diffonde, da chi se ne nutre, per quali scopi. È vero: esiste la speranza-trappola dei padroni, una speranza infame. Solo per contrapposizione – così come d’opposti si fonda la vita – dovrebbe allora esistere una speranza autentica.

Nella nostra era di consapevole antropocene, la speranza autentica è forse la più ardua che vi sia mai stata nella storia: l’umanità rischia di autodistruggersi per l’inquinamento causato dal suo stesso modo di vivere.

[Articolo di adesione alla campagna “Partire dalla speranza e non dalla paura” di Comune-info]. PROSEGUI LA LETTURA

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ANDY ROCCHELLI, SI CERCA ANCORA GIUSTIZIA

Il valore personale e professionale di Andrea “Andy” Rocchelli, fotoreporter ucciso a trent’anni in Ucraina il 24 maggio del 2014, è stato celebrato nella sua città natale, Pavia. Il decennale dell’omicidio è stato un’ulteriore occasione in cui familiari, amici, colleghi e istituzioni (dall’Ordine dei giornalisti al sindacato Fnsi) hanno denunciato la mancata giustizia sulla vicenda e un silenzio mediatico che colpisce la libertà d’informazione.

Insieme a Rocchelli, i mortai dell’esercito ucraino uccisero Andrej Mironov, giornalista, interprete e attivista dei diritti umani russo, e ferirono gravemente William Roguelon, fotoreporter francese.

Andrej Mironov e Andrea Rocchelli

Rocchelli, tra i fondatori del collettivo fotografico Cesura, stava documentando gli scontri tra l’esercito e i separatisti filo-russi vicino a Sloviansk, nella regione del Donbass: un conflitto dimenticato e poi sfociato nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina.
La famiglia e gli amici di Rocchelli cercano ancora giustizia.

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MAREWAR

MAREWAR

Da un’ora vedo un bambino
felice
a volar con l’aquilone.

Piango
sull’altra riva del mare
i bambini scarnati dal drone.

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DAL CARCERE L’UOMO FELICE

Stare immobili nella concentrazione sentendo una corsa interiore che scompiglia i pori del corpo e della mente, lo sguardo fisso sull’ipnosi del palco animato di umani, simboli, colori e geometrie. Forse è questo l’effetto puro dell’arte: un’estasi della partecipazione. E a teatro, Armando Punzo e gli attori della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra rendono lo spettatore «un corpo fluido capace di espandersi, all’esterno e all’interno…perdere i contorni…», come sussurra il drammaturgo nell’accompagnamento audio allo spettacolo, mentre sul palco la meraviglia si dipana in un climax che nella conclusione diviene un inno alla vita e alla diversità.

Ho visto Naturae al Piccolo di Milano giorni fa, ed ancora mi attraversano le emozioni provate in un intreccio di temi tra arte, infanzia e carcere.
Per scrivere su quest’opera di Punzo (Leone d’oro alla carriera alla Biennale Teatro 2023), mi appello alla poetessa Wislawa Szymborska: «Do tanto valore a questa breve frase: “Non lo so”. È solo una frasetta, ma vola su ali possenti. Espande le nostre vite, abbracciando gli spazi dentro di noi e le distese esteriori in cui il nostro piccolo pianeta fluttua sospeso» (da La prima frase è sempre la più difficile, Terre di Mezzo).
Sia Szymborska sia Punzo parlano di “espansione”: a teatro con la Fortezza, lo spettatore ha la sensazione di diffondersi.

Che cosa io possa spiegare di Naturae, non lo so. È anche questo il dono dello spettacolo: spingere alla riflessione tramite il veicolo delle emozioni, per chiosare: «Chissà se è ciò che volevano dire».
In fondo, che importa. Sollecitati dalla visione, dall’ascolto delle frasi lontane e chirurgiche di Punzo e della musica dal vivo di Andreino Salvadori, durante lo spettacolo il coinvolgimento emotivo e l’espansione del proprio essere sono tali da instillare una presunzione: io sono non solo pubblico, ma anche partecipe di quest’opera. Essa è lì sul palco, ma con la sua narrazione multi-sensoriale e non tradizionale mi attira a sé, mi accoglie e mi rende parte.
Lo spettatore in poltroncina diviene come le cubiche gabbie bianche sul palco: basta che qualcuno le faccia muovere perché smettano di fermarsi. E il movimento invisibile tra attori e pubblico crea la magia dell’opera.

Naturae è un atto politico di affermazione dell’homo felix: dobbiamo guadagnarcelo – spiega Punzo – per evolvere dalla fase dell’homo sapiens.

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STARE INSIEME. DIFENDIAMO LA SCUOLA INCLUSIVA

Ogni giorno, per mettersi tutte in fila e andare ai servizi, Shifa si avvicina al banco di Melissa, le porge la mano, e splendente di gioia in viso la sostiene fino alla porta del bagno. Anche Melissa s’illumina di gioia. È ipovedente. Io le osservo, queste bambine di otto anni, ma a volte devo distogliere lo sguardo: non avrei parole per spiegare la commozione dinanzi a tale meraviglia.

Scuola Di Donato/Manin, Roma. Foto Ass.genitori Di Donato

«Maestro, posso sedermi vicino a Waqas per aiutarlo?».
«Alessio, non me lo devi chiedere…vai!».

I bambini stanno lavorando a gruppi, in un progetto di scrittura cooperativa. Siamo al terzo incontro. Mi chiedo se Azzedine – che tra le altre ha una grande difficoltà nel tollerare la frustrazione – oggi riuscirà a non abbandonare il suo gruppo, piangendo arrabbiato.
Seguo la discussione, mentre i bambini si confrontano per inventare una favola.
A un certo punto Azzedine esclama: «Io avevo un’altra idea, ma visto che voi siete d’accordo, accetto la vostra». Scatta l’applauso dei compagni.

I nomi dei bambini sono di fantasia. I fatti sono reali, avvenuti in anni e istituti diversi. Questa è la scuola italiana, piaccia o no, e la legge stabilisce che i bambini, di qualsiasi colore e capacità fisica o intellettuale siano, per crescere debbano stare insieme.

Le norme si possono criticare e anche disobbedire, se si è disposti a pagarne le conseguenze (come fece Alberto Manzi, che si rifiutò di vergare giudizi sui suoi allievi).
Tuttavia la critica, anche quando è discriminatoria, va basata sulla conoscenza. Sui fatti. Se ve ne sono.

La pedagogia è una scienza, ed Ernesto Galli della Loggia, con il suo articolo sul Corriere «La falsa inclusività della scuola», ha dimostrato ancora una volta – dopo l’ideona anni fa del ritorno alla predelladi non essere un pedagogista; di non conoscere – o di ignorare volutamente – gli insegnamenti che ci hanno trasmesso i più grandi scienziati della pedagogia, da Quintiliano a John Dewey a Mario Lodi.

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P.s. L’articolo è stato ripreso da Gessetti Colorati, associazione alla quale invito ad iscriversi perché offre idee pratiche e formazione per l’educazione.

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I BAMBINI CHE COSA SONO? FARE POESIA A SCUOLA

Le righe che seguono mi sono state ispirate – nell’ambito del corso di Didattica della letteratura del prof. Martino Negri, Scienze della formazione primaria, università Milano Bicocca – dallo studio del testo “Desideri sogni bugie” (ed. Babalibri), nel quale il poeta Kenneth Koch (in foto) spiegò il proprio lavoro a scuola – anche in Italia – per fare poesia con i bambini. Lettura molto consigliata!

L’idea didattica, in breve, è di leggere le seguenti righe agli allievi (tranne l’ultima, per rilevare solo in seguito che lo scrivente è il maestro stesso) e stimolarli – dopo una conversazione con liberi commenti dei bambini – con una provocazione pedagogica: «Beh, questo signore ha scritto quel che pensa dei bambini. Ma a voi non viene voglia di scrivere quel che pensate degli adulti?». Può darsi che l’intervento dell’insegnante non sia necessario, perché l’idea potrebbe emergere dalla conversazione stessa tra i bambini.
Si segue allora la traccia, attraverso l’anafora («I grandi sono…»), poiché essa sostiene la strutturazione del flusso poetico, e tramite un’elencazione di aspetti positivi e “negativi” (che ho scritto come provocazione, ai fini di accendere il desiderio alla risposta scritta); almeno questo sarebbe il suggerimento, poi i bambini scriveranno un po’ ciò che vorranno (magari solo aspetti negativi!) e non ho dubbi che fioccherebbero poesie.

I BAMBINI CHE COSA SONO?

I bambini sono moccolo al naso
i bambini sono ginocchia sbucciate
i bambini sono grida sguaiate
i bambini sono sogni realizzabili
i bambini sono parolacce nascoste
i bambini sono saltelli sui marciapiedi
i bambini sono corse nei corridoi
i bambini sono verbi accrocchiati
i bambini sono errori divertenti per chi li capisce
i bambini sono sensibili ai bisbigli delle foglie
i bambini sono lucciole in uno sgabuzzino
i bambini sono grandi caldi occhi di piumone
i bambini sono bagliori di tende nella notte
i bambini sono lingue di fuoco impertinente
i bambini sono pianti noiosi
i bambini sono rugne testarde
i bambini sono bisticciate e poi pace
i bambini sono macchie di sugo
i bambini sono gelato sciolto sul cono
i bambini sono piscina e ghiaccioli
i bambini sono pisciate nelle lenzuola
i bambini sono irrequieti vulcani di risate
i bambini sono ghiri appiccicati al letto
i bambini sono sciarpe al vento
i bambini sono stringhe slacciate
i bambini sono «pucci puuucci…picci piiiicci»
i bambini sono zanzare parolaie
i bambini sono schiaffi di adulti gerarchi
i bambini sono baci di musica
i bambini sono incomprensibili ai potenti
i bambini sono infanzie dimenticate
i bambini sono vittime del mondo
i bambini sono il riscatto del mondo
i bambini sono storie da scrivere

i bambini sono il mio lavoro, i miei pensieri.

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LETTERATURA E DEMOCRAZIA (NON SOLO IN CLASSE)

Il critico letterario Romano Luperini ha scritto una lettera agli insegnanti  di cui riporto di seguito una parte, perché in poche righe il professore è capace di spiegare tutto il senso e il valore pedagogico (e dunque sociale) del fare letteratura in classe.
Naturalmente la «partecipazione collettiva» e la costruzione di una «scuola democratica» sono elementi imprescindibili in qualunque disciplina (almeno per chi intenda “l’ora di lezione” come un reale processo di insegnamento-apprendimento).

La lettera di Luperini mi pare un ottimo augurio di buon anno scolastico!

«Cari insegnanti, la Costituzione vi chiede di formare dei cittadini, non dei consumatori o dei produttori. Voi entrate ogni giorno in aula per insegnare la letteratura e insieme la democrazia. Dovete preparare i giovani a leggere e a commentare un testo letterario; e ciò comporta anzitutto studiarlo oggettivamente nella sua autonomia rispetto al lettore, considerarlo nelle sue componenti storicoculturali e letterarie, linguistiche e stilistiche; ma poi dovete anche sollecitarne l’interpretazione, che comporta invece la partecipazione del lettore, chiamato a esprimere il significato per noi di un testo. Non solo e non tanto il significato per me, ma potenzialmente un significato per la intera comunità dei lettori.

Lo studio della letteratura insomma è anche educazione civile, insegnamento di democrazia: a tutti è data la possibilità di parlare liberamente e di interpretare un testo, ma prima ognuno deve sapere ciò di cui si parla, conoscere l’argomento su cui prende la parola. La classe come “comunità ermeneutica” presuppone questa partecipazione collettiva interpretante e questa scuola democratica».

Leggi su laletteraturaenoi la Lettera agli insegnanti scritta da Romano Luperini.

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QUELL’INCONTRO CON GIANNI MINÀ

Era la primavera del 2008 o giù di lì, e in una riunione organizzata da Giulietto Chiesa, un mio intervento su Hugo Chávez fece arrossire di arrabbiata passione Gianni Minà. La sua morte, il 27 marzo scorso, mi ha rievocato l’episodio, e oggi – da maestro elementare che faceva il giornalista – penso che la figura di Minà sia un esempio per il giornalismo, per l’insegnamento e per tutti quanti noi.

In pedagogia, il concetto di autenticità è essenziale: con la medesima parola si può definire il lavoro di Gianni Minà, e la sua persona.

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                                                 Foto tratta da Fb: Gianni Minà

 

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FUGGIRE DALLA SCUOLA. E RESISTERE

La scuola italiana non rispetta la Convenzione Onu sui diritti dei bambini, e tanto meno le Indicazioni nazionali stabilite dallo Stato stesso. Questo è in sostanza il grido d’accusa di una madre finlandese, che in una lettera aperta ha spiegato di fuggire dall’Italia – dove con la sua famiglia aveva deciso di risiedere – dopo appena due mesi di vita scolastica dei figli.

Così questa madre, che chiede «qual è la pedagogia degli insegnanti?», induce a porsi ulteriori domande: com’è applicata la libertà d’insegnamento sancita dalla Costituzione? Se la formazione dei docenti è buona, può davvero essere messa in pratica nei contesti scolastici? La selezione degli insegnanti risponde ai bisogni profondi e concreti dell’educazione? Per quanto tempo ancora accetteremo che (anche) la scuola sopravviva con insufficienti risorse e instabilità (un docente su quattro è precario)?

Le parole di Elin Mattsson – una pittrice che con la famiglia ha conosciuto scuole in diversi Paesi europei – sono uno sfogo sbalordito, importante perché la donna, con il suo occhio esterno, punta lo sguardo su alcuni nodi mai sciolti della scuola italiana, i medesimi che da decenni sollevano pedagogisti e associazioni di insegnanti e genitori.

Per la madre finlandese non è accettabile che sugli allievi ricadano le urla e lo sguardo «sprezzante» degli insegnanti; che i bambini non si possano muovere dal banco durante le lezioni né beneficiare di frequenti pause; che essi non possano apprendere con l’«aria fresca» dell’ambiente esterno e che le scuole siano circondate dal «caos totale del traffico». E con sintesi limpida, Mattsson definisce «povero» il nostro sistema scolastico. Dunque, via da qui.

La lettera è un’occasione per riflettere sul fatto che nella scuola permanga in linea generale l’eredità della riforma di Giovanni Gentile del 1923.

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