[Questo articolo è una riflessione seguita a un corso INDIRE-Piccole scuole per la progettazione eTwinning: in calce il link alla pubblicazione su INDIRE]
Spesso gli insegnanti appassionati hanno bisogno di fermarsi, riflettere, e rovistare di nuovo nella sacca dei motivi per i quali hanno deciso di svolgere una professione sempre più complessa. Nelle classi, manifesto della società, i bambini – oltre alle meraviglie dell’infanzia – portano pluralità di bisogni educativi e disagi. Eppure la professione dell’insegnante, nei fatti, non gode di un brillante riconoscimento.
Soprattutto, l’insegnante riflessivo arriva a porsi inquieto una domanda: qual è il senso del mio lavoro, in un’epoca d’incertezza crescente sulle sorti del pianeta?
Il cambiamento climatico è uno spettro che al mattino ci portiamo appresso a scuola; nascosto nella borsa, così sibila: «Addio ai ghiacciai, e uragani, e caldoni e alluvioni sempre più frequenti: questa sarà la vita dei tuoi allievi!».
Era già il 1979 quando Hans Jonas scrisse che fino all’avvento dell’inquinante tecnologia moderna «la presenza dell’uomo nel mondo era un dato indiscutibile»: messa a repentaglio dal “progresso”, diviene un obbligo «conservare tale mondo in modo che restino intatte le condizioni di quella presenza» (Il principio responsabilità, Einaudi 2009, p.15).
Qual è, allora, la responsabilità di noi insegnanti? Che cosa dobbiamo fare con gli allievi, nella prospettiva di un futuro tanto diverso dalla nostra esperienza di vita? O peggio, parafrasando Greta Thunberg: insegnare che senso ha, se il futuro i nostri allievi non l’avranno?