Ne avevo combinata una di troppo, oppure avevo parlato o riso disturbando i compagni al di là del limite. Così la maestra Annalisa Risi mi diede una nota.
Quando Annalisa scriveva una nota, la questione era seria: lei non aveva l’abitudine di aprire i diari dei bambini per faccende che si potevano risolvere con un rimprovero in classe, senza scomodare le famiglie. E non aveva l’abitudine di cancellare a fine giornata la nota, utilizzandola come strumento di minaccia e controllo. In questo modo, quando Annalisa mi dava una nota, sapevo che tornato a casa avrei dovuto affrontare una seconda volta le conseguenze del mio comportamento.
Quel giorno, però, devo avere guardato e implorato la mia maestra in maniera assai pietosa: in corridoio, mentre stavamo per uscire da scuola, Annalisa cancellò la nota. Incredulo, provai un profondo senso di gratitudine, e allo stesso tempo non svanì il senso di colpa per ciò che avevo combinato. Non sentii di averla fatta franca: piuttosto, la mia maestra mi aveva perdonato.
Non è un caso se in questi giorni di dolore – dopo che Annalisa ci ha lasciato a causa di una malattia – sia riaffiorato il ricordo di quell’episodio risalente ad almeno venticinque anni fa: oggi che sono un uomo e lavoro come maestro elementare, so che la gratitudine è il frutto dell’educazione, un insegnamento che sboccia con il trascorrere degli anni. Provare gratitudine è uno dei sentimenti più belli e significativi della vita, ancora più luminoso oggi in una società in cui è troppo ciò che si ritiene scontato.
Il ruolo primario della famiglia è fondamentale nella “costruzione” di una persona in età infantile, ma come spiega tra gli altri il pedagogista francesce Philippe Meirieu, il compito dell’educazione – e quindi innanzitutto della scuola – è di donare al bambino le opportunità per andare oltre la propria appartenenza, per affrancarsi dall’origine socio-culturale determinata dalla nascita e divenire una persona migliore rispetto a quanto avrebbe potuto offrire in solitudine l’educazione famigliare.
In questi giorni di dolore sento così, ancora di più, il peso prezioso del lavoro di Annalisa: penso a ciò che sono e che faccio, a quello in cui credo, e mi chiedo quale uomo sarei oggi se non avessi avuto lei come maestra.
Adorerei allo stesso modo Fabrizio De Andrè strimpellando la chitarra, se Annalisa non ci avesse fatto cantare “La guerra di Piero”? Sarei un pacifista convinto che la solidarietà sia il valore più alto dell’essere umano? Mi piacerebbe ugualmente scrivere? Avrei impiegato energie, imparando e divertendomi, per partecipare negli anni dell’adolescenza e oltre a vari laboratori teatrali, se la maestra e pedagogista Annalisa non avesse utilizzato il teatro come attrezzo educativo, individuale e di gruppo? Avrei deciso infine di impegnarmi nel mestiere di maestro?
Non lo so. So soltanto che il fischietto con il laccetto rosso che lei mi diede, per la recita in cui vestivo i panni del capostazione, è sempre rimasto nel cassetto della mia scrivania, come ricordo di un evento di vita memorabile, come segno tangibile di un insegnamento.
La ripetizione spiega l’etimologia latina del vocabolo insegnare: in-signum, insignare, imprimere segni. Questo è ciò che maestri e professoresse devono fare, e ognuno di noi sa quali insegnanti hanno impresso segni fruttuosi e quali invece nocivi, e quali non ne hanno lasciati, come un fiume che scorre senza donare pasto alla vita dei pesciolini.
L’ultimo giorno di quinta elementare, Annalisa ci consegnò una lettera di «buon viaggio», ricca di parole maiuscole, punti esclamativi e di sospensione, evidenza – immagino – della tempesta di emozioni che provò scrivendo. «Ora tocca a me scrivere un “testo” […] Ho davanti agli occhi la classe, in seconda», esordì Annalisa, che in prima non fu nostra maestra. «Chi non sapeva allacciarsi le scarpe…chi non si allacciava il giubbotto […] Siete cresciuti voi ma sono “cresciuta” anch’io», confessò rivelando l’essenza dell’insegnare: imparare, grazie agli allievi, alla riflessione, alla volontà tenace di migliorare se stessi.
Quando arrivò in seconda, Annalisa aveva pressappoco la mia età, ed ora riesco a comprendere che cos’abbia potuto significare per lei insegnare in una classe di monelloni qual era la nostra; quanto lavoro, quanta passione («Sapeste quante volte, di notte, mi alzavo dal letto solo perché avevo avuto un’idea diversa per il giorno dopo. […] Grazie a voi ho capito che la scuola è un “lavoro duro” ma che può entusiasmare, rendere sereni ed ottimisti»); quanta fatica e pazienza, e infine – grazie al suo impegno – quanta soddisfazione. «Al di là della vostra “vivace esuberanza” (è così che si parla nelle schede e nei registri) sono pienamente convinta – ci scrisse – che uscirete da questa scuola più consapevoli e più responsabili. NE SONO CERTA. Avete imparato a vivere insieme, a volervi bene, a capire che cosa siano amicizia e rispetto. Avete sperimentato su voi stessi i litigi, le incomprensioni, le difficoltà…e le risate (magari incontrollate)».
Non era retorica di malinconia. Il primo giorno di elementari, prima di entrare a scuola, piangevo perché non volevo andare in classe con alcuni compagni della materna. L’ultimo giorno di elementari, piangevo perché quella classe non la volevo lasciare.
E che classe avesse costruito Annalisa lo si vede nelle fotografie: soprattutto negli ultimi due anni di scuola, i sorrisi splendenti sono quasi unanimi, e dove non c’è l’evidente splendore dei denti, si cela il sorriso tenero, un poco timido e altrettanto meraviglioso dei bambini. Certo, le alunne dovevano spesso sopportare quei monelloni rompiscatole di compagni, ma in fondo il gruppo stava bene.
Eravamo una classe felice. Annalisa ci rese felici, perché ci comprendeva: «Non mi sono mai stancata di parlare con voi», rivelò a noi e a se stessa.
Con il suo lavoro e quella lettera, immagino rese felici anche le famiglie: «Io, come insegnante, ho avuto la fortuna di avere a che fare con i vostri genitori, con i quali ho discusso, mi sono confrontata, cercando sempre di vedervi non solo come “alunni” ma come PERSONE, con bisogni, esigenze, desideri…!». La «fortuna» dei genitori, gli alunni come persone; quanta educativa bellezza in una sola frase che cuce insieme i gangli dell’apprendimento scolastico: il fanciullo, l’insegnante, la famiglia.
E gli alunni come piccoli Ermes portatori di insegnamenti ai genitori: riguardo l’ultima recita teatrale e la sua «agitazione», Annalisa scrisse che essa «era solo dettata dal desiderio che voi potevate (e DOVEVATE) offrire un messaggio un po’ particolare, un messaggio di pace. Quante volte vi ho ripetuto fino alla nausea che fare teatro è dimostrare a voi stessi di credere in qualcosa di bello e importante. CI SIETE RIUSCITI!».
Quella lettera è un manifesto dell’educazione, per insegnanti e genitori, e per quanto mi riguarda sarà una bussola nella navigazione durante il lavoro con i bambini.
Oggi, insieme ai bei ricordi, pesa il dolore della mancanza. Ma ciò che la morte non può portare via, è quanto una persona ha lasciato ed insegnato, al di là del mestiere che ha svolto. Annalisa, da maestra, e per la maestra che era, ha impresso un’infinità di segni.
«Il tempo passa molto, troppo velocemente (È IL TEMPO CHE SCORRE E IL MONDO CHE STA FERMO!)», scrisse a noi e alle nostre famiglie. Forse mi sbaglio, ma credo volesse dire che la società è lenta, troppo, nell’accogliere le esigenze di cambiamento, nel divenire sempre più umana.
Ebbene, penso che questo sia il segno più prezioso che ci ha impresso Annalisa. Molti, tra i suoi alunni e le sue alunne, da genitori, da educatori, da lavoratori, da cittadini, da persone, cercano e cercheranno di essere, fare e trasmettere ciò che da bambini hanno imparato, con le coordinate delle sue parole: responsabilità, amicizia, rispetto, confronto, pace.
Le sue alunne ed i suoi alunni cercheranno di costruire un mondo che non stia fermo, ma che giri, giri e giri insieme allo scorrere del tempo, per cambiare la società, per realizzare una comunità umana in cui la luce di vita portata dai bambini trovi piena accoglienza; per crescere persone che, da adulte, mantengano nell’animo e nei comportamenti la luce dei bambini che erano.
E così via di generazione in generazione, in un ciclo di vita in cui i “segni” vivranno per sempre.
Mi sono commossa e rileggerò questa lettera quando mi sentirò sconfortata, nel mio lavoro di maestra di sostegno