Cronache macedoni 3 – Un sabato sera balcanico

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La terza puntata della rubricaCronache macedoni racconta una notte trascorsa in compagnia di nuovi amici.

Qualcosa non mi torna, quando di notte parcheggiamo l’auto davanti al cancello del monastero. Ma sto imparando che qui, in certe situazioni, è meglio non farsi troppe domande: just do it e c’est la vie sono motti internazionali da ripetersi a mente nella vita macedone. La chiesa del monastero di Treskavec è al centro di edifici scheletrici
E Rampo è uno che agli interrogativi ribatte vago. “Dove andiamo?”, gli avevo chiesto. “In giro”: un tipo loquace, ma non nelle risposte.

Lo avevo capito subito, che ad andare con Rampo la destinazione rimane ignota. Lui, e l’amico Lupcko, li ho conosciuti al mezzodì d’una domenica, sul sentiero per il monastero di Treskavec, acciambellato tra le rocce montagnose a quasi quattro ore di cammino da Prilep.


Ero con Matteo, mio compagno di scuola di giornalismo che non vedevo da più di un anno, e che trovandosi a Sofia per un progetto Leonardo ne aveva approfittato per venire a salutarmi e scoprire la MacIo e Matteo non ci vedevamo da quasi due anniedonia.
Rampo e Lupcko li abbiamo incrociati all’ombra di due ombrelloni di metallo, seduti su panche attorno a un tavolo. Postazione fissa per una sosta prima di arrivare al monastero, piccolo miracolo per il pranzo, perché il sole picchiava la testa. “Non abbiamo tè da offrirvi, l’abbiamo finito”, si scusano i due mostrando i bicchieri vuoti. Dopo qualche chiacchiera ci salutiamo: “Noi dobbiamo andare – dice Rampo – perché ho un appuntamento con un amico. A dopo”.
“Mah. Che posto è un monastero – ci chiediamo io e Matteo – per incontrarsi con un amico?”.

Il posto giusto, se l’amico è un monaco. Arrivati, vediamo Rampo parlare con un uomo dal cilindro la barba e la tunica lunghe e nere. Se la propaganda se la fosse presa con il cristianesimo ortodosso invece che con l’Islam, anche i monaci dell’est Europa incuterebbero diffidenza nelle persone.

Io e Matteo giriamo nel cortile del monastero, che doveva essere molto grande e bello. A febbraio è bruciato, i segni su una centralina fanno pensare a un cortocircuito: le camere, la cucina, il magazzino e i bagni sono un’immagine annerita. Solo la chiesa, al centro del cortile, è rimasta intatta; Rampo m’aveva detto che i pantaloncini non erano l’abbigliamento adatto, ma che se volevo entrare lo stesso nella chiesetta, la decisione stava a me. E così faccio: “Tanto il monaco è sparito, fedeli non ce ne sono – penso – e dio se esiste non si offende certo: Adamo ed Eva li ha fatti nudi, mica col vestito”.
L’antico sacro fascino degli affreschi alle pareti, ricordando il fuoco che avrebbe potuto distruggerli, fa tirare un sospiro di sollievo.
La chiesa del monastero di Treskavec è al centro di edifici scheletrici

 

 

 

 

 

Usciti dal monastero, con Rampo e Lupcko andiamo in un capannone a pochi metri e ci sediamo al tavolo di una piccola stanza con un lavandino e un fornello da campeggio; Rampo si muove come fosse a casa sua, prepara un caffè alla turca e tra il fumo delle Monte Carlo (circa 70 centesimi a pacchetto) che i due trentacinquenni aspirano senza sosta, chiacchieriamo una mezz’ora.

Lupcko è un maestro di scuola elementare. Rampo fa il muratore e il designer grafico; al monastero ha vissuto a lungo qualche anno fa perché aveva bisogno di tranquillità: si sente in debito e vuole dare una mano a ricostruirlo. Mi toglie così la curiosità, perché a vederlo, con gli occhialoni da sole e il rock degli Ekatarina Velika che urla dallo smartphone, non sembra proprio un tipo ortodosso.

C’incamminiamo insieme sul sentiero per Prilep, e durante la sosta io e Matteo ci scambiamo divertiti sguardi d’intesa. I due amici, partendo da ragionamenti a quattro in inglese, si trovano spesso in disaccordo, s’infervorano passando a discutere in macedone e sembrano essere sul punto di mandarsi a quel paese da un momento all’altro. Al prossimo da cui sento dire che gli italiani sono un popolo di caciaroni, regalo un volo per la Macedonia. Di sola andata.

Arrivati ai piedi della montagnola che custodisce la fortezza in rovina del re Marko, a ridosso della città, spiego ai due che le nostre strade si dividono e che ci saremmo rivisti presto. “No, seguiteci”, ribatte Rampo. “E dove andiamo?”, gli chiedo. “Seguiteci e vedrete”, risponde.
La misteriosa meta non sarebbe stata altro che un giro più lungo per salutarci su una strada vicina a casa loro e chiacchierare ancora un po’.

Il monastero si trova sotto la cima al centro della foto, all'orizzonte

Così, quando sabato notte mi ritrovo davanti al cancello del monastero di Sant’Arcangelo, che si arrampica sulla parete rocciosa della montagna a cinque minuti in auto dal centro di Prilep, trattengo la domanda “ma dove stiamo andando?”. “In giro”, mi era già stato detto: cosa volevo di più?
La reticenza vale la sorpresa: Gjorgji spalanca il cancello del monastero e saliamo la scalinata verso il portone d’ingresso.

Gjorgji ha i tratti d’uno slavo del nord. Barba e capelli lunghi al mento rossi, naso appuntito, occhi azzurri; ma lo sguardo e il riso birbantelli sono garanzia balcanica. L’ho conosciuto poco prima, quando con Rampo sono entrato a casa di Lupcko. Guarda caso, Gjorgji stava alla finestra a fumare. Rampo m’aveva detto che avremmo passato la serata con un caro amico di gioventù che non vedevano da almeno sei anni; mi ritrovo così, con gratitudine per l’inclusione, tra abbracci risate e pacche sulle spalle.

Sul divano della sala di Lupcko però ho una mezz’ora di sconforto: i tre, oltre a farmi maledire tra le spirali delle sigarette il giorno in cui decisi di venire in una città attorniata da campi di tabacco, mi escludono dalla conversazione parlando macedone. Bevo il tè pensando che se continuano così, o imparo la lingua in una sera o impazzisco, fino a quando una delle poche cose che traducono dei loro discorsi mi fa ricordare l’ironia balcanica di cui avevo letto qui e là sul web. “In Macedonia, quando muore qualcuno – mi spiega Rampo – per tradizione si cucinano dolci particolari. Ci stiamo dicendo quali sono i nostri dolci preferiti ai funerali”.
Usciti di casa, l’inglese torna per lo più la lingua comune.

Chiuso il cancello del monastero alle proprie spalle, Gjorgji mi guarda con occhi da bambino: “In questo posto ho passato buona parte dell’infanzia. Mio padre – racconta – faceva il custode, e io venivo a giocare qui. Quando si riunivano artisti da tutta Europa, mi sembrava di trovarmi in un mondo fantastico”.
Me lo aveva accennato Simon, il settantenne attivo come una molla che quando passo a salutare nella sua officina mi offre il caffè: Prilep, fino alla dissoluzione della Jugoslavia, era una famosa città di cultura, e ogni anno artisti di diverse discipline si riunivano al monastero di Sant’Arcangelo.

Io e i miei nuovi amici ci sediamo sulla scalinata di fronte al portone d’ingresso, con la musica dagli smartphone e la birra Skopsko a portata di mano. Il tono di voce e le risate riempiono il silenzio della notte; io dubito che sia il posto giusto per fare baccano, ma a parte avere imparato l’inutilità di certe domande, sono troppo emozionato per interessarmene.

Le stelle, molte più stelle di quelle a cui sono abituato, ci lanciano dal buio segnali di vita, e la montagna di roccia culla il monastero abbarbicato alle nostre spalle, abbracciando noi e le luci basse della città.
Quando gli altri parlano in Il monastero di sant'Arcangelomacedone, osservo l’intorno e il mio pensiero prende il volo.
Penso al progetto con l’associazione, che mi sta deludendo perché non rispecchia le aspettative; penso al passato, frustrazione da precariato; penso al futuro, limbo oscuro quasi come questa notte.
Ora, guardando le ombre del monastero e gli amici, non me ne frega nulla. È come se la mia esistenza si riducesse all’attimo: penso solo che sto vivendo una situazione bizzarra, stereotipicamente balcanica, e che questo momento non l’avrei potuto vivere in altro luogo del mondo.
Questo momento, per la serenità che mi dona, è il più bello dei tre mesi macedoni: “Finalmente – mi dico – mi sento immerso nei Balcani. È un nuovo inizio”.

L’apoteosi arriva quando una suora tutta vestita di nero esce dalle camere appese lassù alla roccia e grida nel vuoto parole di cui intuisco il significato.

Sbaracchiamo mentre Gjorgji sentenzia: “Non c’è fretta. Anche se arriva qualcuno qui a lamentarsi, mio padre è stato il custode per anni”. E io penso che, almeno in Italia, i custodi in pensione non hanno tutta questa autorevolezza.

In auto riprendiamo la strada. Verso dove, non solo non lo chiedo a loro, ma manco me lo chiedo io.
A qualche chilometro da Prilep iniziamo a salire a piedi una collina e dopo poco è chiaro che non siamo sul sentiero: attraversiamo campi selvatici, scavalchiamo fili di ferro e allarghiamo le braccia tra fusti di spighe che pungono le scarpe. Non so che ore siano, non so quando ci fermeremo, non so se ci siamo persi, e ho il cuore che ride: quanti anni hanno davvero questi trentacinquenni?

La meta era un’altura di rocce, terrazza naturale sulla piana e le luci di Bitola e di Kruševo, seminascoste all’orizzonte dalle montagne. Luogo a loro caro, capisco.

Ci sdraiamo, ognuno a pensare all’infinito sotto la meraviglia delle stelle, mentre dallo smartphone di Lupcko vibrano le corde di un oud, che mi fanno sentire in una terra di mezzo tra Oriente e Occidente.

Il rossore dell’alba lento appare dietro la montagna di Marko. Quando torniamo all’auto è giorno. Un giorno che per noi finisce, e inizia per l’anziano che sulla strada in salita accompagna a mano la bicicletta.

“Beh, allora ci rivediamo tra sei anni?”, chiedo a Gjorgji quando lo saluto sotto casa mia. “No, domani torno a Skopje, ma ad agosto ripasso da qui”, mi risponde mentre esco dall’auto.
Infilo la chiave nella porta, e lo stomaco reclama. Sono quasi le sei. Mi ero promesso non più d’uno a settimana, ma avere una panetteria davanti casa è una tentazione troppo grande: prima di andare a letto, ripenso alla nottata addentando un burek al formaggio.
E rido.

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