«Ragazzi, lo sapete che cosa successe esattamente dieci anni fa?». Stamane, all’ingresso in aula, ho posto questa domanda ai bambini, dopo avere ascoltato al risveglio, come al solito, la rassegna stampa di Rai Radio 3 Prima pagina: non mi aspettavo che qualcuno alzasse la mano, in quella pluriclasse. E invece l’ha fatto una ragazzina di quinta: «C’è stato un naufragio e sono morte delle persone».
Lezione fondamentale numero uno (per tutti gli adulti): non pensare che i bambini siano degli incompetenti. Come siamo immersi noi in un mondo di fatti, emozioni e notizie, lo sono anche loro: ascoltano e vedono ciò che accade intorno a loro, ragionano e – se ne viene data loro la possibilità – si esprimono. Hanno idee. E se li ascoltassimo, riusciremmo a cambiare il mondo.
Le Indicazioni nazionali (la carta che dovrebbe essere sacra per gli insegnanti!) affermano a pagina 12: «Le esperienze personali che i bambini e gli adolescenti hanno degli aspetti a loro prossimi della natura, della cultura, della società e della storia sono una via di accesso importante per la sensibilizzazione ai problemi più generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio e nel tempo».
Pertanto, meglio porre domande che fornire subito spiegazioni.
A quel punto ciò che mi premeva era ragionare sul concetto di responsabilità, e sempre a domanda, un bambino ha risposto che il comandante di una nave deve essere l’ultimo ad abbandonarla, in caso di naufragio (a differenza di ciò che fece l’allora comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, ho aggiunto, sottolineando che fu anche questo a destare particolare scalpore). Sguardi stupiti. Allora ho detto che chi ha una responsabilità verso gli altri, deve pensare prima agli altri che a se stesso; ad esempio («State tranquilli che non succederà, ma è giusto che facciamo le prove di evacuazione»), se a scuola dovesse scoppiare un incendio, un maestro – prima di mettersi in salvo – deve accertarsi che non sia rimasto nessun bambino in classe.
«La pena di morte, bisognava dargli!», ha esclamato un ragazzino di quinta scherzando, ma non troppo.
«Esiste le pena di morte in Italia?».
«Sì», «no», «sì», «sì», «no», «sì»…insomma, boh.
E allora questo gliel’ho spiegato, anche leggendo l’articolo 27 della Costituzione.
«In America c’è la pena di morte, usano la sedia elettrica!», ha esclamato uno, con spiegazione a grandi linee per un compagno del tutto ignaro di quella letale invenzione.
A un altro bambino è allora venuto in mente «un film, c’era un attore bravo, famoso…ma mia mamma non me l’ha lasciato vedere». «Tom Hanks? E nel film c’era un omone grande e grosso? Il miglio verde. Beh sai, tua madre non aveva mica tutti i torti: è un film bellissimo ma pesantuccio, diciamo così…guardatelo tra qualche anno».
Se fossi il maestro di classe, non avrei spiegato ai bambini che in Italia non c’è più la pena di morte, ma avrei chiesto loro: «Come facciamo a scoprirlo?». Chissà che cosa ne sarebbe seguito.
Lezione numero due (per gli insegnanti). Quando entriamo in classe, facciamo due parole con i nostri allievi, e anche cinque o sei. Non solo perché così i bambini possono (anche) condividere gioie e timori (come: «Andare in nave mi fa paura» – «Sappiate che secondo le statistiche è molto più pericoloso andare in automobile. Se ad esempio vi trovate con una persona che guida e usa il telefono, ditegli di metterlo via»).
Fare due parole “fuori programma” è essenziale anche perché da una sola domanda, da un semplice «come state?», può arrivare lo spunto per tutto un progetto di ricerca.
Qualcosa mi dice che, se avessi iniziato un percorso di scoperta e apprendimento con i bambini sul tema, saremmo arrivati a Cesare Beccaria, magari passando per la Rivoluzione francese, i naufragi dei migranti nel Mediterraneo, e chissà per che cos’altro.
Tutto partendo da una chiacchierata di dieci minuti.