PROTEGGERE IL NOME DELL’INFANZIA

A Pavia un bambino è stato rapito dal nonno e portato in Israele.
Questa era la notizia, e diffondere il nome del bambino non era necessario. A prevederlo sarebbe la “Carta di Treviso”, una «norma vincolante di autoregolamentazione» sulle informazioni riguardanti i minori, e che i giornalisti dovrebbero rispettare.
Invece già a fine maggio, quando il bambino è rimasto orfano in seguito alla tragedia della funivia del Mottarone, il suo nome è stato detto, scritto e ripetuto, insieme a quello dei genitori. Il nome del bambino è riapparso di nuovo in questi giorni sulle prime notizie della stampa; si è parlato anche delle sue origini etniche e della scuola che avrebbe ricominciato a Pavia con i compagni di classe, se non fosse stato rapito.

Idillio primaverile, Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1896-1901 (fonte: Wikipedia).

La vicenda, da insegnante ed ex giornalista professionista, mi indigna molto e deve indignare tutti coloro i quali credono nella tutela dell’infanzia.
A che cosa serve un codice deontologico, se non viene rispettato? La mancata garanzia d’anonimato inciderà sullo sviluppo del bambino, quando sarà adolescente e poi uomo? Il modo in cui i media trattano il dramma vissuto dal bambino, è un segnale della visione culturale di questo Paese nei confronti dei bambini e dell’educazione? Si lega alla scarsa considerazione sull’infanzia da parte della classe dirigente? Dobbiamo gridare, noi educatori e cittadini, che ai bambini bisogna portare rispetto?

Scrisse Janusz Korczak, ne Il diritto del bambino al rispetto: «I bambini costituiscono una percentuale importante dell’umanità […] in quanto abitanti, concittadini nostri, nostri compagni di sempre. Sono stati, sono, saranno». E poco più avanti: «Il bambino ha un avvenire, ma anche un passato fatto di alcuni avvenimenti significativi, di ricordi, di meditazioni profonde e solitarie. Come noi, ricorda e dimentica». Ecco il punto. Richiamando la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, la Carta di Treviso afferma che «in tutte le azioni riguardanti i minori deve costituire oggetto di primaria considerazione “il maggiore interesse del bambino” e che perciò tutti gli altri interessi devono essere a questo sacrificati».

Pertanto «va garantito l’assoluto anonimato del minore coinvolto in fatti di cronaca […]; tale garanzia viene meno allorché sia tesa a dare positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare e sociale in cui si sta formando […] va altresì evitata la pubblicazione di tutti gli elementi che possano portare alla sua identificazione, quali le generalità dei genitori, l’indirizzo dell’abitazione o della residenza, la scuola».

Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, ha comunicato di avere «segnalato un caso di possibile violazione della normativa deontologica al competente consiglio di disciplina». Viene tuttavia da chiedersi se il caso sia solo uno e non piuttosto generalizzato, perché diffondere il nome – molto particolare – di un bambino che vive in una città di 70mila abitanti, aggiungendo i nomi dei famigliari coinvolti nella vicenda, le origini religiose e la scuola, significa minare «l’assoluto anonimato del minore». È inopportuno che i titoli delle notizie presentino il «caso» del bambino con il suo nome, così come fa lo stesso comunicato dell’Ordine.

Quel nome letto e ascoltato rimane nel magazzino della nostra memoria. Il bambino non potrà mai dimenticare quanto gli è accaduto, ma ha il diritto che la sua tragedia non gli venga ricordata negli sguardi delle persone che incontrerà lungo la sua vita e alle quali si presenterà con il proprio nome. Il diritto dei giornalisti ad informare e quello dei cittadini ad essere informati – secondo la Carta di Treviso – non deve prevalere sul diritto del minore alla riservatezza.

È auspicabile che l’Ordine dei Giornalisti, a partire dalla vicenda del bambino orfano e rapito, rinnovi una riflessione sul tema informazione e infanzia promuovendo un’opera mirata di sensibilizzazione nei confronti, innanzitutto, dei giornalisti che hanno la responsabilità sulla pubblicazione delle notizie. È un’occasione, visto che l’Ordine «ha approvato una riforma che attualizza la Carta di Treviso» e che «è ora all’esame del garante della privacy». Anche la notizia del bambino scomparso nel Mugello, lo scorso giugno, non era stata trattata infine nel modo corretto, con pubblicazioni del suo volto anche dopo il ritrovamento: e così in Rete vi sono e vi rimarranno immagini del suo sguardo un po’ sorpreso, dolce e imbronciato mentre è in braccio del carabiniere che l’ha salvato.

Le modalità in cui i giornalisti pubblicano le notizie, tuttavia, non sono altro che uno specchio della cultura profonda della nostra società. Basti pensare all’uso dei bambini da parte del sistema pubblicitario (ad esempio, di recente una compagnia petrolifera si presenta in radio con una bambina che chiede al padre di raccontarle una favola su carburante!): a quando un codice di regolamentazione che tuteli l’immagine dell’infanzia nella pubblicità?
Basti pensare alla mancanza di asili nido, di insegnanti, di servizi scolastici (come i trasporti o le visite neuropsichiatriche per i bambini con sostegno) ed extra-scolastici (attività pubbliche sportive e culturali rivolte all’infanzia).
Sarebbe superficiale, come spesso accade, puntare il dito contro i giornalisti.
Se loro, come si usa dire, sono i “cani da guardia della democrazia”, gli educatori, i genitori e tutti i cittadini che vedono nell’infanzia il futuro dell’umanità, devono essere sempre i cani da guardia dell’infanzia.

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