«Un fastidio che non sapeva bene neanche lui. Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su […] facevano a chi monta sulle spalle dell’altro». Da anni, quando vado in Liguria, sul treno e in acqua mi chiedo quale beatitudine agli occhi fosse un tempo la costa, e mi addoloro, stupido, per il paesaggio perduto; mi appare Capo di Noli di Signac, e immagino il viaggio in barca del pittore dalla Costa azzurra, i suoi sguardi che non possono più essere i nostri. E poi ho letto per caso: il sanremese Calvino, in treno per il ponente ligure, non riconosceva più la sua terra. Così all’apparizione del pittore in mare mi s’è aggiunto lo scrittore sul vagone, e mi sento meno stupido, e comparo la mia malinconia al dolore di chi, in quella riviera, vi crebbe. Calvino lo affrontò – insieme al «fastidio» – con La speculazione edilizia; l’ho scoperto solo in una recente, inquieta visita a Sanremo.
Lo scempio ligure, nelle fondamenta della febbrona edilizia che coinvolse l’intero Paese, è il medesimo del nostro attuale e ubiquo stile di vita.
La velocità del cambiamento consumista, con la produzione smisurata di merci e infrastrutture – sospinta dal sistema mediatico e tecnologico – ha ucciso nel secondo Novecento un paesaggio naturale e culturale. E il paesaggio non resuscita: stop, finito. In un lampo di Storia.
Su tale aspetto mi sento molto meno ricco di chi ha vissuto infanzie bucoliche prima e dopo la seconda guerra mondiale.
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