Nell’ufficio di una scuola media francese, i due insegnanti dirigenti fanno i postini: imbustano gli esercizi fotocopiati per gli allievi privi di tecnologia e poi, rientrando a casa, lasciano i pacchi nei negozi dove le famiglie dei ragazzi fanno la spesa.
Raccolta da Cesare Martinetti con l’articolo A Saint-Nazaire il professore fa il postino, per il sito di Mario Calabresi Altre Storie, l’iniziativa del preside Marc Jalinier e del suo vice Yann Duval testimonia in concreto le parole con le quali molti insegnanti, in questo periodo di forzato isolamento, cercano di sottolineare ancor di più la base primaria dell’apprendimento: la relazione tra l’adulto e l’educando.
Vergata sui manuali di pedagogia – «Il buon maestro pensa anche ai vincoli di affetto», scriveva Quintiliano già duemila anni fa nella sua Institutio Oratoria – questa nozione è tra le vittime delle settimane che stiamo vivendo. Lo suggerisce anche la nota ministeriale n.388 del 17 marzo scorso, «Emergenza sanitaria da nuovo Coronavirus. Prime indicazioni
operative per le attività didattiche a distanza», nella quale si sottolinea sin dall’inizio che compito dei docenti è «mantenere viva la comunità di classe, di scuola e il senso di appartenenza» per combattere «il rischio di isolamento e di demotivazione».
Oggi una delle domande alle quali ogni insegnante deve trovare risposta è quanto, e come, la relazione mediata dagli schermi possa sostituire la relazione di corpi ed emozioni vissuta in classe. E quanto, tale relazione, è ancora più importante per i bambini e ragazzi con svantaggio sociale, fisico o cognitivo. La stessa nota ministeriale – precisando che «nulla può sostituire appieno ciò che avviene, in presenza, in una classe» – invita alla cura delle «specifiche esigenze degli studenti con disabilità».