Non perdiamo la tenacia. Appunti per una società dell’ottimismo lucido

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Pubblico di seguito una mia riflessione nata in risposta a un articolo di un mio concittadino su un tema che riguarda tutti noi: il passato (precisamente il ’68), il presente e la prospettiva di futuro. La riflessione è stata pubblicata da il settimanale Il Giornale di Voghera lo scorso 28 giugno.

Ettore, Andromaca e Astianatte. Museo archeologico Palazzo Jatta, Ruvo di Puglia. Da bit.ly/2L8pYO6

Ettore si tolse l’elmo e lo posò per terra luminoso. Poi baciò il figlio amato, lo fece saltare sulle braccia e disse pregando Zeus e gli altri numi: «Zeus, e voi del cielo, fate che mio figlio cresca e diventi come me uno dei primi troiani, pieno di forza e che regni sovrano su Ilio, così che qualcuno possa dire di lui che torna dalla guerra: “È molto più forte del padre”. E che porti le spoglie insanguinate di un nemico e ne abbia gioia in cuore la madre». Dopo queste parole mise il figlio in braccio alla cara sposa [Andromaca]. Ed essa lo strinse al petto odoroso sorridendo fra le lacrime. Ettore si commosse […] – Iliade, canto VI.

Due settimane fa ho letto lo scritto di Angelo Vicini «Quando gli industriali erano “i padroni”»: all’ultima riga, mi sono commosso. L’emozione mi ha presentato il sentire di un obbligo: rispondere in qualche maniera modesta, io figlio orwelliano degli anni del riflusso, a un uomo che nella vita s’è dato e si dà tuttora da fare per il progresso della società – rappresentando così una parte della sua generazione – e che oggi, settantenne, riflettendo sui ricordi del 1968, si trova a scrivere: «Il dispiacere più grande rimane per me il fatto che quella rivoluzione abbia creato, dopo l’entusiasmo giovanile di quel cambiamento, egoismi personali quasi immediati e che i giovani di adesso, invece, di certezze ne abbiano ben poche. Scusatemi, ma non riesco a essere ottimista».

Mi sono commosso perché credo non sia giusto che le generazioni dei più o meno anziani, dagli ex partigiani ai “veri” sessantottini, debbano soffrire per i più o meno giovani dopo avere già sofferto in abbondanza nelle loro lotte per la libertà e la conquista dei diritti.
Mi sono commosso perché in quel «non riesco a essere ottimista» ho inteso l’incredulo barcollio dinanzi alle sciagure del presente, e vi ho visto il tremore degli occhi e della voce di una mia parente ultraottantenne mentre ricordava – contestualizzandole ai fascismi di oggi – le fughe durante i bombardamenti di “Pippo” nella Seconda guerra mondiale.

Tanti, troppi fatti e parole di questo mondo sono inaccettabili, ma il sofferto sbigottimento di quei più o meno anziani mi risulta eticamente intollerabile. Da qui derivano queste mie righe.

Ritengo abbia molta ragione Vicini a sostenere che in seguito a «quel cambiamento» del ’68 vi siano stati «egoismi personali quasi immediati», tuttavia non riesco a provare un pieno risentimento verso chi, dopo quella stagione, si è adagiato sulle conquiste ottenute, rinnegando il motto «Siamo realisti, chiediamo l’impossibile»: voglio credere, nel dubbio, che le mancanze materiali dell’infanzia (che le generazioni successive non hanno sperimentato) e le dinamiche politico-economiche internazionali degli anni ’70, siano state giustificazione all’adagiamento e alla miopia sul corso che avrebbe intrapreso il genere umano.

Quel che invece riesco meno a giustificare, è la mancata trasmissione della memoria storica alle nuove generazioni: da ciò, credo, deriva principalmente la bruttura del tempo presente, perché la mancata consapevolezza di ciò che è stato, del perché abbiamo o non abbiamo (valori, diritti, saperi, merci…), diventa fertilizzante dell’indifferenza e dell’ignavia.

Qui si innesta la mia visione da educatore, mio mestiere, e facile mi è l’aggancio: «Se vogliamo una scuola nuova dobbiamo farla», si legge in uno dei cartelli della manifestazione nella fotografia che accompagna lo scritto di Vicini. Lungi da me accusare la scuola in quanto tale, poiché essa è al contempo creatrice ed espressione della società: con “scuola” intendo la trasmissione della conoscenza, che riguarda dunque le varie agenzie educative (la famiglia, gli oratori, i centri di aggregazione, la politica e così via).

Ci si può forse aspettare che i ragazzi d’oggi si ribellino (e chi, se non loro?) alle violazioni attuali dei diritti umani (e quindi, anche, della nostra Costituzione), al presente d’odio che può sembrare lo spettro degli anni ’30, ai cambiamenti climatici che paiono l’introduzione di un film di fantascienza apocalittico, se la “scuola” non ha trasmesso consapevolezza su ciò che è accaduto nel ‘900, a livello politico ed economico? Potremmo dedurne che siamo spacciati, o che lo siano perlomeno i più deboli.

Tuttavia, mi permetto di rivolgere un invito al lucido ottimismo, non solo perché – parafrasando «Il principio responsabilità» del filosofo Hans Jonas – dal nostro esistere deriva il diritto ad esistere delle future generazioni (o qualcuno pensa alle sterilizzazioni di massa?), ma perché possono esserci di sostegno (a tutti, non solo a chi fa il mio mestiere), le parole di un grande pedagogista, Piero Bertolini: «L’ottimismo vuol dire avere fiducia negli altri e in particolare avere fiducia nel bambino, nel ragazzo. Se un educatore è ottimista è portato ad aiutare il bambino a essere anche lui ottimista, cioè a essere orientato verso un modo di vivere che lo veda attivo, consapevole di poter intervenire nella realtà per trasformarla, per trasformarla in qualcosa di migliore».

Credo che oggi, se vogliamo un futuro che è ancora possibile, non dico sereno ma almeno accettabile, dobbiamo ri-educarci tutti. «L’educazione è l’arma più potente che può cambiare il mondo», disse qualcuno che di cambiamenti se ne intendeva: Nelson Mandela.

Alla base, credo, ci deve però essere una granitica consapevolezza, la prima sulla quale costruire «qualcosa di migliore»: il nostro modo di vivere è del tutto sbagliato, sta distruggendo noi stessi e la Terra. I dati scientifici lo dimostrano da tempo: ad esempio la Fao (quindi l’Onu) ci dice che 815 milioni di persone nel mondo soffrono la fame, cioè di fame muoiono, un numero in aumento come l’obesità nei Paesi “ricchi”!, o le analisi dell’Ipcc (il “Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico” dell’Onu) sono allarmanti da anni e anni.

Questo modo di vivere che ci sta distruggendo ha un nome chiaro: capitalismo. Il nostro quotidiano si basa sul trarre profitto sulla pelle di altri uomini e sulle risorse del pianeta. Non dobbiamo pensare che ciò riguardi solo gli industriali senza scrupoli, i politici corrotti o gli speculatori finanziari, perché molte merci di cui anche noi ci circondiamo, anche noi che per avere un salario decente lavoriamo onestamente, sono merci frutto di sangue, schiavismo, stupri, disastri ambientali: in breve, violazioni dei diritti umani. Pensiamoci, ad esempio, quando tra poco faremo la salsa in casa: e perché mai nei grandi supermercati i pomodori hanno un costo al chilo irrisorio? Nelle baraccopoli dei braccianti e nelle morti sotto il sole (anche di donne italiane, va ricordato) sta la risposta.

Chiedo dunque di essere consapevoli e ottimisti per trasformare questo mondo disumano, chiedo di immaginarci a far saltare i nostri figli e nipoti sulle braccia e di impegnarci in una ri-educazione del nostro quotidiano, senza scusanti deleghe alla politica inadempiente, perché un giorno dei nostri figli e nipoti si possa dire: «Sono molto più forti del padre». E siccome dai tempi di Omero ci siamo evoluti, anche se mica tanto, le generazioni future saranno più forti dei padri e delle madri, e le spoglie che porteranno non saranno insanguinate né di una guerra né di un nemico, ma mondate di un’ideologia che essa sì, insanguina il mondo. Abbiamo ancora tempo, non molto, ma abbiamo ancora tempo per essere lucidi ottimisti.

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